Anni ’70

Gli anni settanta per Ugo La Pietra sono caratterizzati da un’intensa attività di ricerca e sperimentazione che alcuni critici come Enrico Crispolti e Vittorio Fagone definiranno extra media. La Pietra sperimenta molti mezzi espressivi: oltre a privilegiare il disegno, la fotografia e le opere bidimensionali, con una forte presenza dell’immagine fotografica, lo vediamo impegnato in “performance”, “ambienti”, “interventi urbani”, “film”, “video” in una spregiudicata attività artistica sempre più al di fuori del sistema dell’arte (gallerie, musei).

Questa posizione è leggibile nelle opere (interventi urbani al di fuori delle gallerie), nei mezzi espressivi, nell’organizzazione delle attività (gruppi autogestiti come “La Fabbrica di Comunicazione”, “La Cooperativa Maroncelli”, “La Global Tools”) e nel sistema di comunicazione (direzione delle riviste come In, Progettare Inpiù, Brera Flash, Fascicolo).

Gli anni Settanta rappresentano quindi per La Pietra e la sua generazione il tempo della verifica delle premesse teoriche espresse verso la fine degli anni Sessanta: il superamento dei modelli tradizionali di comunicazione, le nuove forme d’arte, il rapporto dell’arte con il sociale. Sarà proprio quest’ultima definizione a impegnare La Pietra in una delle sue più importanti operazioni organizzative e di animazione presso il Centro Internazionale di Brera: la creazione e coordinazione di vari gruppi di artisti che lavoravano nel e per il sociale.

Questi gruppi troveranno, verso la fine degli anni Settanta, un certo riconoscimento nell’edizione della Biennale di Venezia curata da Enrico Crispolti. La Pietra teorico e animatore è già ben visibile all’inizio degli anni settanta con la direzione della rivista In, in cui verranno raccolte per la prima volta le esperienze di gruppi di architetti, designer e artisti radicali italiani e stranieri.

La posizione di La Pietra, artista e architetto radicale all’inizio degli anni settanta, viene ampiamente riconosciuta e così lo troviamo presente nelle mostre della Triennale di Milano, nella mostra “Italy: the New Domestic Landscape” al Museum of Modern Art di New York, nella manifestazione “Trigon 71” al museo Neue Galerie di Graz, al museo Am Ostwal di Dortmund nella rassegna curata da Gillo Dorfles sull’arte italiana, e quindi nella Biennale di Venezia del 1972. Riconoscimenti che non fermeranno la sua instancabile attività di sperimentatore, infatti è tra i principali esponenti del gruppo degli artisti che operano con il cinema (con Barucchello, Patella, Carpi, Nespolo, coordinati da Vittorio Fagone) presenti in tutte le manifestazioni in Italia e all’estero dedicate al cinema d’artista; contemporaneamente la sua vena di pittore segnico lo vede impegnato e presente in moltissime mostre dedicate alla nuova scrittura (Galleria Mercato del Sale e Avida Dollars a Milano).

Ma è al movimento radicale che La Pietra dedica molte energie: nella direzione della rivista In, nell’elaborazione della rivista monografica Inpiù, nella redazione dei quaderni della Global Tools, nella pratica di ricerca del Gruppo di Comunicazione (con Gianni Pettena, Franco Vaccari e Guido Arra) sempre all’interno della Global Tools, fino all’organizzazione dell’unica mostra di design radicale “Gli abiti dell’imperatore”.

Le sue esperienze trovano quindi alla fine degli anni Settanta alcune occasioni per essere comunicate in modo più ampio e sistematico: l’insegnamento presso l’Istituto Statale d’Arte di Monza (1977), la grande mostra dedicata al settore audiovisivo nella rinata Triennale di Milano (1979), la responsabilità redazionale per il settore design e arredamento nella rivista Domus (1979). Non è facile quindi tracciare un percorso lineare di La Pietra negli anni Settanta anche perché questo decennio verrà presto messo in ombra e ricordato come il decennio degli “anni di piombo”.

La Pietra può essere definito l’autore più rappresentativo di quel decennio con forme trasgressive che rappresentavano nell’arte la gioia e la speranza di nuovi modelli di creatività diffusa (al di fuori del sistema dell’arte) con la proposta di nuovi sistemi di comunicazione (liberati dai gruppi di potere e di manipolazione dei messaggi) con la definizione di modelli di comportamento e progettuali che definivano un modo nuovo di porsi nei confronti dell’ambiente urbano: la riappropriazione dell’ambiente.

Saranno proprio le sue esperienze metaprogettuali, le mostre, gli articoli e i seminari a indicare la strada verso la pratica di Abitare la città, sviluppando un’attenzione che porterà, all’inizio degli anni Ottanta, un sempre più ampio numero di operatori ad occuparsi dell’ambiente urbano, fino alla nascita della disciplina “arredo urbano”.