In quella stessa Galleria, egli troverà per tutti gli anni Sessanta un ruolo di animatore e spesso di organizzatore; sono molti gli artisti che la utilizzarono, non essendo facile in quegli anni trovare luoghi in cui esporre a Milano (tra questi: Agnetti, Grignani, Ballocco, Meseus, Gambone, Scheggi, Calderara), e con cui La Pietra avrà sempre un’intensa frequentazione. Essa si manifestò spesso in azioni di ricerca e di collaborazione, come nei progetti sinestetici del ’63/’64 con gli scultori Marchese, Benevelli e Azuma o con Nanda Vigo per il Concorso Monumento alla Resistenza di Brescia.
I primi segnali di maturazione vengono colti nel 64/65 da Gillo Dorfles che, presentando le opere di La Pietra per una mostra, definisce per la prima volta alcuni suoi segni carichi di azzardo come randomici: essi rompono un equilibrio acquisito, facilmente leggibili in segni gestuali all’interno di una base programmata. E sarà proprio quest’ultima a dare a La Pietra spesso l’occasione di far parte di molte rassegne e mostre in quella che in quegli anni veniva chiamata “nuova tendenza”.
Questo disturbo nella base programmata diventerà per lui, a metà degli anni Sessanta, una caratteristica che troviamo anche in una serie di ricerche e opere nell’architettura e nell’arredamento (vedi per tutte la Boutique Altre Cose a Milano). La consapevolezza di queste teorie e la loro applicazione, non solo alla scala bidimensionale ma anche oggettuale e ambientale, lo porta a formulare nel 1967 quella che passò alla storia, soprattutto dell’architettura e nel design radicale, come la Teoria del Sistema disequilibrante. Essa, ispiratrice delle opere, delle ricerche, degli scritti di La Pietra fino a tutti gli anni Settanta, di fatto era finalizzata a consentirgli di operare senza essere coinvolto dalla logica del “sistema”.
In poche parole operare sì, ma fuori o tutt’al più ai margini di un sistema: quello di una professionalità asservita, nell’arte, o nell’architettura. Il suo rifiuto, oltre ad essere determinato da una posizione politico-culturale diffusa in quegli anni nelle avanguardie artistiche, era anche causato, come si vedrà in seguito, dal desiderio di rivendicare all’interno delle discipline creative operanti nella logica della produzione e del profitto un territorio sufficientemente autonomo di ricerca e sperimentazione.
In nome di questa ricerca e sperimentazione, La Pietra, già negli anni Sessanta, sperimenta: nuovi materiali (costruendo un laboratorio “artistico-artigianale” per la lavorazione del metacrilato) nuove tipologie arredative, mettendo a contatto una boutique (Altre Cose) con una discoteca (Bang Bang), nuove tecnologie elettroniche (l’uso del regolatore d’intensità luminosa applicato per la prima volta alla sua lampada Globo tissurato o il luxofono applicato agli ambienti audiovisivi presentati alla galleria Toselli e nell’ambiente audiovisivo alla Triennale di Milano), nuove tecnologie per l’architettura (il padiglione gonfiabile per l’Expo di Osaka o i sistemi di prefabbricazione in silicalcite), nuove tipologie di oggetti (vedi la libreria Uno sull’altro prodotta da Poggi), nuove aree di esperienza e di ricerca nelle analisi sul territorio delle periferie urbane (condotte inizialmente con Livio Marzot) sperimentando interventi estetici a scala urbana (vedi “Campo Urbano” a Como o “Segnali di fuoco” a Zafferana Etnea).
Verso la fine degli anni Sessanta il suo lavoro è presente nelle ricerche artistiche più avanzate (arte concettuale) e nelle sperimentazioni ambientali che verranno in seguito definite architettura e design radicale.