Anni ’60

Per capire le esperienze e le ricerche di Ugo La Pietra negli anni Sessanta occorre fare riferimento ad alcuni fattori che già alla fine degli anni Cinquanta lo avevano influenzato: la sua passione per la musica jazz e l’attenzione verso la corrente dell’arte e architettura brutalista, colta nei lavori dello scultore Umberto Milani, nelle architetture di Vittoriano Viganò (La Pietra si iscrive alla facoltà di architettura nel 1957/58) e la forte attrazione di qualsiasi giovane artista verso l’informale…

Proprio alla fine degli anni Cinquanta emergono con chiarezza le sue prime scelte e ricerche. Da un lato impegnato con Alberto Seassaro e Marcello Pietrantoni a formulare i metodi su come condurre ricerca nella Facoltà di Architettura, sviluppando le teorie dei “modelli di comprensione” e indicando la strada che supera “les integrations des arts” per la sinestesia delle arti, dall’altro il giovane La Pietra frequenta il Giamaica a Brera, intrecciando relazioni con artisti dell’epoca (Fontana, Manzoni, Sordini, Castellani, Dadamaino), che lo porteranno, tra il 1962 e ’63 a fondare con A. Ferrari, E. Sordini, A. Verga, A. Vermi il Gruppo del Cenobio.

Il gruppo, sostenuto dai saggi teorici di Alberto Lucìa, avrà vita breve ma molto intensa e lascerà alla cultura di Milano una delle tante tracce che, all’inizio degli anni Sessanta, rappresenteranno i primi segnali del profondo rinnovamento nell’arte in quel decennio.

Dal Gruppo del Cenobio egli porterà, per tutti gli anni a seguire, una profonda e mai esaurita passione per la ricerca segnica, che avrà già nel 1964 un impulso con Vittorio Orsenigo, con cui organizzerà la serie di cinque mostre La lepre lunare, con riferimento alle prime pubblicazioni di L. Borges, con diversi argomenti che occuperanno l’attività della Galleria Cenobio per quasi un anno.

In quella stessa Galleria, egli troverà per tutti gli anni Sessanta un ruolo di animatore e spesso di organizzatore; sono molti gli artisti che la utilizzarono, non essendo facile in quegli anni trovare luoghi in cui esporre a Milano (tra questi: Agnetti, Grignani, Ballocco, Meseus, Gambone, Scheggi, Calderara), e con cui La Pietra avrà sempre un’intensa frequentazione. Essa si manifestò spesso in azioni di ricerca e di collaborazione, come nei progetti sinestetici del ’63/’64 con gli scultori Marchese, Benevelli e Azuma o con Nanda Vigo per il Concorso Monumento alla Resistenza di Brescia.

I primi segnali di maturazione vengono colti nel 64/65 da Gillo Dorfles che, presentando le opere di La Pietra per una mostra, definisce per la prima volta alcuni suoi segni carichi di azzardo come randomici: essi rompono un equilibrio acquisito, facilmente leggibili in segni gestuali all’interno di una base programmata. E sarà proprio quest’ultima a dare a La Pietra spesso l’occasione di far parte di molte rassegne e mostre in quella che in quegli anni veniva chiamata “nuova tendenza”.

Questo disturbo nella base programmata diventerà per lui, a metà degli anni Sessanta, una caratteristica che troviamo anche in una serie di ricerche e opere nell’architettura e nell’arredamento (vedi per tutte la Boutique Altre Cose a Milano). La consapevolezza di queste teorie e la loro applicazione, non solo alla scala bidimensionale ma anche oggettuale e ambientale, lo porta a formulare nel 1967 quella che passò alla storia, soprattutto dell’architettura e nel design radicale, come la Teoria del Sistema disequilibrante. Essa, ispiratrice delle opere, delle ricerche, degli scritti di La Pietra fino a tutti gli anni Settanta, di fatto era finalizzata a consentirgli di operare senza essere coinvolto dalla logica del “sistema”.

In poche parole operare sì, ma fuori o tutt’al più ai margini di un sistema: quello di una professionalità asservita, nell’arte, o nell’architettura. Il suo rifiuto, oltre ad essere determinato da una posizione politico-culturale diffusa in quegli anni nelle avanguardie artistiche, era anche causato, come si vedrà in seguito, dal desiderio di rivendicare all’interno delle discipline creative operanti nella logica della produzione e del profitto un territorio sufficientemente autonomo di ricerca e sperimentazione.

In nome di questa ricerca e sperimentazione, La Pietra, già negli anni Sessanta, sperimenta: nuovi materiali (costruendo un laboratorio “artistico-artigianale” per la lavorazione del metacrilato) nuove tipologie arredative, mettendo a contatto una boutique (Altre Cose) con una discoteca (Bang Bang), nuove tecnologie elettroniche (l’uso del regolatore d’intensità luminosa applicato per la prima volta alla sua lampada Globo tissurato o il luxofono applicato agli ambienti audiovisivi presentati alla galleria Toselli e nell’ambiente audiovisivo alla Triennale di Milano), nuove tecnologie per l’architettura (il padiglione gonfiabile per l’Expo di Osaka o i sistemi di prefabbricazione in silicalcite), nuove tipologie di oggetti (vedi la libreria Uno sull’altro prodotta da Poggi), nuove aree di esperienza e di ricerca nelle analisi sul territorio delle periferie urbane (condotte inizialmente con Livio Marzot) sperimentando interventi estetici a scala urbana (vedi “Campo Urbano” a Como o “Segnali di fuoco” a Zafferana Etnea).

Verso la fine degli anni Sessanta il suo lavoro è presente nelle ricerche artistiche più avanzate (arte concettuale) e nelle sperimentazioni ambientali che verranno in seguito definite architettura e design radicale.

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